Vin Santo… tra leggende e santità!

Quale occasione migliore di questo periodo per parlare un pò di questo vino così affascinante: il Vin Santo?

Vino_SantoLe leggende. Che dipingono questo vino passito nei tempi lontani, sono molteplici le leggende. Le leggende nel mondo del vino sono quelle che mi piacciono di più raccontare perché non fanno altro che stimolare l’immaginario di questo prodotto quasi mistico. Una delle prime racconta di un frate francescano che nel 1348 utilizzava questo vino, usato nelle funzioni religiose, per curare le vittime di peste e da li si diffuse l’idea che esso potesse avere effetti curativi, da li Vin Santo a ricordare l’effetto taumaturgico. Un’altra leggenda invece narra come l’uso confuso di alcune parole abbia invece batezzato questo vino. Durante il Concilio di Firenze del 1439, Giovanni Bessarione, durante la degustazione di questo vino, esclamò “… questo è il vino di Xantos!”. I commensali confusero la parola Xantos con santos e lo chiamarono Vin Santo per le sue proprietà organolettiche divine; una variazione di questa leggenda attribuisce la parola santo invece all’interpretazione fonetica di Xanthos che in greco invece significa giallo, proprio per il colore con cui si presentava. L’origine più probabile invece di questo vino starebbe proprio nel suo utilizzo principalmente nelle funzioni religiose (le uve lasciate ad appassire venivano pigiate nel periodo invernale a ridosso di alcune delle feste religiose più importanti come i Santi, il Natale e in fine la Pasqua).

Il vino nella tradizione. I migliori grappoli durante la vendemmia venivano selezionati per poi farli appassire su stuoie, da qui anche la definizione di vini di paglia. Al momento opportuno, a seconda delle esigenze del produttore, le uve venivano pigiate e trasferite in caratelli di legno, con una capacità da 15 a 50 litri, da quali era appena stato tolto il vinsanto della produzione precedente. La particolarità stava nell’aver cura delle fecce (residui della fermentazione e vari depositi per decantazione del mosto) in modo da riutilizzarle per la futura produzione. Questa pratica era di uso comune per facilitare l’innesco della nuova fermentazione in quanto l’alto grado zuccherino non ne facilitava lo sviluppo e perché al tempo non era di uso comune l’utilizzo di lieviti selezionati nella fase fermentativa. Queste fecce venivano anche chiamate la madre del vinsanto. I caratelli venivano poi depositati nei sottotetti delle ville padronali in quanto era convinzione che gli enormi sbalzi termici tra estate e inverno giovassero alla sua evoluzione; l’invecchiamento durava dai 3 anni fino, in alcuni casi, a più di 10 anni.

Il vino oggi. I tempi cambiano e oggi alcune pratiche sono diventate obsolete come l’utilizzo ripetuto dei caratelli, la non pulizia degli stessi e l’esposizione a grandi sbalzi termici. Si tende principalmente ad utilizzare botti nuove e pulite, lieviti selezionati che favoriscano la fermentazione vista la concentrazione elevata degli zuccheri. Qualche produttore per conservare il “gusto storico” si avvale ancora di madre per ricreare le proprietà organolettiche di un tempo, stando molto attenti all’utilizzo in quanto nella madre sono contenute sostanze che dovrebbero essere estranee al vino. Le uve principalmente utilizzate rimangono però il Trebbiano e la Malvasia; una variante del vinsanto prevede l’utilizzo di uve sangiovese per creare quello che si chiama Occhio di Pernice.